di Massimo Palozzi - In attesa di passare domani in zona gialla, ieri è stata superata nel Reatino la quota delle 45mila dosi di vaccino iniettate. Ancora poche in assoluto, considerando che l’indice della popolazione provinciale completamente immunizzata sta appena al di sopra dell’11%, ma una cifra incoraggiante alla luce del ritmo sostenuto delle somministrazioni e dell’avvio in settimana del centro vaccinale a Passo Corese.
Sotto questo profilo la tanto denigrata sanità regionale sembra aver compiuto balzi prodigiosi. Addirittura, martedì l’assessore regionale Alessio D’Amato ha reso noto che in un mese ben cinquantamila persone (molte delle quali provenienti dal Nord Italia, a cominciare dalla Lombardia) hanno stabilito il domicilio nel Lazio per poter fruire della vaccinazione in tempi rapidi. Orgoglio da campanile a parte, la notizia merita di essere rimarcata perché riflette un’indubbia inversione di tendenza.
Che le cose procedano speditamente, nel solco di un’organizzazione all’altezza delle aspettative, lo certificano a Rieti non solo i numeri quanto le testimonianze di chi è stato vaccinato: nonostante le oggettive difficoltà ambientali, pochissimi si lamentano del servizio e anzi il giudizio positivo degli utenti risulta pressoché unanime.
Non bastasse, sempre martedì la Asl ha annunciato di aver proceduto al recupero graduale delle prestazioni di medicina specialistica ambulatoriale differibili e non urgenti, temporaneamente sospese a causa della pandemia. Come previsto dal relativo Piano operativo regionale, entro il mese di dicembre 2020 è stato effettuato il 99,3% delle visite (primi accessi e controlli) e il 97,3% delle prestazioni strumentali accantonate per colpa dell’emergenza. Le rimanenti, definite a basso rischio, saranno recuperate entro la fine del mese attraverso chiamate dirette ai singoli assistiti.
Uno degli effetti collaterali più perniciosi della travolgente avanzata dell’epidemia era stata proprio la sospensione delle visite e delle prestazioni su pazienti affetti da altre patologie, alcune delle quali piuttosto importanti. Il recupero annunciato dalla Asl non risolve per intero lo storico problema dell’abbattimento delle liste d’attesa e della mobilità passiva, ma segna comunque un’apprezzabile cambio di rotta.
L’ovvia soddisfazione per i risultati raggiunti si accompagna quindi al riconoscimento dei meriti per le energie profuse dal management e dagli operatori sanitari, in un mix di sentimenti fonte però anche di un pizzico di rammarico per le condizioni davvero non ottimali in cui si dibatteva la sanità reatina già prima dell’avvento del Covid. Nessuno può infatti dimenticare quell’ultimo posto in classifica “guadagnato” due anni fa nella rilevazione del Sole 24 Ore. I successi di oggi non bastano insomma a cancellare i disagi del passato e anzi acuiscono il cruccio per non aver visto sul campo il medesimo modello di capacità ed efficienza realizzato nei passaggi più recenti.
Spostando l’attenzione dall’assistenza ospedaliera alla cosiddetta medicina territoriale, sta suscitando una perplessa curiosità la riforma inserita nel Recovery plan per istituire le cosiddette Case della comunità. Si tratta dell’evoluzione del concetto di Casa della salute, che in verità non ha riscosso un gran successo, anche se a Magliano Sabina ha avuto il pregio di attutire i guasti della chiusura dell’ospedale a seguito del famigerato decreto 80 di riorganizzazione della sanità laziale, firmato nel 2010 dall’allora presidente della Regione Renata Polverini. All’atto pratico non un granché, tanto che lo scorso novembre, dopo sei anni, il “Marzio Marini” è tornato ad espandere la sua offerta, benché ancora lontana da quella (assai necessaria) di un vero nosocomio pubblico.
In sostanza si vorrebbero introdurre dei centri di assistenza socio-sanitaria sparsi sul territorio a servizio di un numero circoscritto di utenti, dove concentrare diversi ambulatori specialistici. I medici di medicina generale paventano però la trasformazione in dipendenza del loro attuale rapporto a convenzione e per questo hanno bocciato in partenza il progetto.
La settimana ha proposto pure un’altra antipatica querelle, fortunatamente risolta in fretta sul filo della diplomazia dallo stesso D’Amato. L’incidente lo si è sfiorato con la Fimmg Lazio che non aveva affatto gradito alcuni apprezzamenti non troppo lusinghieri sull’operato dei suoi associati, entrando in aperto conflitto con “i tecnocrati ottusi di numeri”. “I medici di medicina generale si occupano di persone in carne e ossa”, ha scritto mercoledì il sindacato dei camici in una durissima nota di protesta. “Alimentare da parte della Regione polemiche e sospetti sul nostro lavoro è semplicemente segno di ingratitudine e irresponsabilità. Additare i medici di medicina generale di atteggiamenti arbitrari nella vaccinazione, come quelli che favoriscono i furbetti del vaccino, è una cosa indegna, perché totalmente infondata”.
Sull’impegno dei medici di famiglia in effetti è montata negli ultimi mesi una ridda di illazioni, basata sull’accusa di una scarsa partecipazione allo “sforzo bellico” nei confronti del nemico comune. Certo è che la pandemia ha messo drammaticamente in evidenza l’inadeguatezza di un modello sanitario concentrato sugli ospedali, che ha relegato i medici di medicina generale a un ruolo quasi burocratico.
Come spesso accade in circostanze analoghe, la crisi portata dal coronavirus ha svelato i punti deboli del sistema, tra i quali il mitigato entusiasmo di qualche esponente della categoria. Da qui a fare di ogni erba un fascio però ce ne corre e, fiutato il pericolo, l’assessore D’Amato si è affrettato a dedicare una carezza ai dottori licenziando nella stessa giornata un comunicato di ringraziamento, non soltanto di maniera, ma supportato da dati inequivocabili. “I medici di medicina generale hanno somministrato oltre 130mila dosi di vaccino anti Covid e sono un perno essenziale e insostituibile di questa campagna vaccinale”, ha dichiarato il titolare della Sanità, per concludere che a loro “va un sincero ringraziamento per tutta l’attività che stanno svolgendo. Il ruolo del medico di famiglia è indispensabile, soprattutto per il rapporto che hanno con gli assistiti e nell’indicare in maniera appropriata l’uso del vaccino”.
Pace fatta e caso archiviato, almeno fino alla prossima diatriba. Nel frattempo nel Lazio ha preso il via la profilassi all’interno delle carceri, secondo le indicazioni del piano varato dal commissario straordinario all’emergenza Covid Francesco Paolo Figliuolo, con la benedizione del ministro della Giustizia Marta Cartabia.
Venerdì è così iniziata la somministrazione ai circa 300 detenuti del Nuovo complesso di Vazia, mentre dal giorno dopo è stata la volta dei 120 agenti di Polizia penitenziaria in servizio nell’istituto reatino. Subito sui social è scattato il fuoco di fila di commenti e reazioni in maggioranza ostili all’iniziativa. I (molti) contrari se la sono presa in particolare con la precedenza data ai ristretti rispetto alla gente “per bene” ancora in attesa di ricevere la prima iniezione.
In simili frangenti è facile che il sentimento popolare si esprima con la pancia. Del resto è arduo opporre di primo acchito una ragionevole motivazione alle critiche di chi rivendica una differente scala di priorità fondata su valutazioni morali. In realtà qui l’etica c’entra fino a un certo punto. E non prevalgono nemmeno le considerazioni pur significative sullo Stato che deve garantire ai condannati e ai detenuti in regime di custodia cautelare trattamenti di pari dignità (anche perché sarebbe paradossalmente difficile parlare di parità, quando una larga fascia di popolazione “fuori” sta aspettando il vaccino).
Intervengono viceversa elementi di opportunità legati alla facilità di circolazione dei contagi in comunità chiuse. Vale la pena richiamare al proposito il focolaio registrato proprio nella casa circondariale di Vazia lo scorso febbraio con 17 positivi tra i “lavoranti”, senza contare la drammatica rivolta del marzo 2020 quando diversi reclusi finirono in ospedale minacciando di diffondere ulteriormente l’infezione. In presenza di sintomi gravi i malati non potrebbero infatti essere curati nell’infermeria del carcere e si renderebbe necessario il ricovero al “de Lellis” con occupazione di posti letto e, in casi estremi, di terapie intensive “sottratte” al resto della collettività. In quest’ottica non va ignorato che, tra i tanti, l’urgente vaccinazione all’interno degli istituti di pena era stata richiesta già a gennaio da Sebastiano Ardita, membro del Csm e tra il 2002 e il 2011 direttore generale del Trattamento detenuti del Dap.
25-04-2021