a cura di Massimo PALOZZI

Ottobre 2018

POLVERI SOTTILI

PRIMI AD APRIRE, PRIMI A CHIUDERE

La crisi dell’industria saccarifera italiana anticipata dalla fine dello zuccherificio reatino?

lavoro

(di Massimo Palozzi) Missione fallita. La Commissione ha espresso parere contrario alla richiesta del governo italiano presentata al consiglio europeo dei ministri dell’Agricoltura del 15 ottobre di attivare misure eccezionali per tentare di arginare la gravissima crisi del comparto nazionale dello zucchero, ormai fagocitato dai concorrenti d’oltreconfine e con il prezzo che in un anno è sceso del 30%.

Dieci anni fa in Italia si contavano 19 zuccherifici attivi, con una produzione annua di quasi 1,4 milioni di tonnellate, pari a circa il 17% di quella europea. Oggi sono rimasti solo tre stabilimenti (ma uno chiuderà entro l’anno) da cui esce appena un quinto di quei volumi e con i 7000 occupati di allora ridotti a 1200. Anche le aree destinate alle piantagioni di barbabietole hanno subito un drastico calo, passando da 233mila ettari agli attuali 36mila, tutti concentrati tra Veneto ed Emilia Romagna.

Le ragioni di un simile tracollo, una volta tanto, non vanno ricercate solo nel dumping degli stati emergenti, ma specialmente nell’abolizione delle quote produttive che la Ue ha deciso un anno fa. La liberalizzazione del mercato dello zucchero ha consentito infatti ai paesi leader del settore, soprattutto Francia e Germania, di prendere il sopravvento per via delle politiche commerciali aggressive delle loro multinazionali basate sulle eccedenze dovute al clima più favorevole alle coltivazioni.

Eppure ci fu un tempo in cui la barbabietola e la filiera ad essa collegata costituivano anche nei nostri territori una risorsa preziosa. Introdotta nell’Italia centrale attorno al 1840 come foraggio, la diffusione della pianta su vasta scala coincise proprio con l’utilizzazione industriale della radice per l’estrazione dello zucchero.

Come ci ricorda Renzo De Felice, disponendo di uno zuccherificio sul posto, la coltivazione della barbabietola si presentava estremamente redditizia, tanto che la famosa Inchiesta Jacini sulle condizioni dell’agricoltura nel Regno d’Italia condotta tra il 1877 e il 1886 calcolava che da un rubbio (poco meno di due ettari) a barbabietole si ricavasse un utile netto di 306,79 lire, contro un utile di 61,05 ricavato da un rubbio a granturco.

La nuova coltura si espanse rapidamente, all’inizio nel Frusinate quindi nel Reatino, ma mentre in Ciociaria venne presto abbandonata a causa delle eccessive difficoltà nella lavorazione della materia prima, a Rieti la costruzione del primo zuccherificio ad entrare in produzione in Italia consentì il suo perpetuarsi, seppure tra alterne vicende, fino agli inizi degli anni Settanta del Novecento.

Nonostante il fallimento per colpa degli scarsi raccolti dell’iniziale tentativo del 1862 ad opera di Francesco Palmegiani, il 16 marzo 1873 venne inaugurato in città un nuovo zuccherificio. Anche questa esperienza tardò a rivelarsi profittevole, ma alla fine il successo arrivò grazie agli investimenti dell’industriale di origini svizzere Emilio Maraini, che aveva rilanciato la fabbrica nel 1887 stringendo un proficuo sodalizio con il principe Giovanni Potenziani, sulle cui vaste proprietà terriere si era sviluppata un’intensa coltivazione della barbabietola.

Nel 1900 il nostro era il secondo zuccherificio in Italia per capacità di lavoro, insieme a Forlì e Cremona e dietro solo a Bologna. Negli anni Quaranta impiegava circa quattrocento persone nei mesi di massima operatività e nel decennio succesivo, passata la guerra, fu destinatario di importanti interventi di potenziamento e riqualificazione degli impianti.

L’opificio rimase in esercizio ancora per qualche anno, fino a quando, nel 1971, gli imprenditori regionali del settore decisero di concentrare le lavorazioni negli stabilimenti più redditizi, tra i quali non figurava quello reatino che nel 1973, con l’ultimo raccolto delle barbabietole della Piana, cessava così la sua attività ultrasecolare.

Con il fermo produttivo dello zuccherificio tramontava mestamente (e con notevoli danni all’occupazione e all’intera economia locale) non solo un modello di sviluppo agroindustriale ma anche una vera e propria tradizione, tanto pervasiva da essere riuscita a plasmare l’identità stessa della Rieti di allora.

Quella dello zuccherificio non fu dunque una storia effimera. E col senno di poi, la sua fine prematura può persino essere presa a presagio dell’irreversibile declino della filiera saccarifera italiana.

A 45 anni di distanza, ci può consolare il fatto che fummo così “lungimiranti” da anticipare la crisi dello zucchero italiano, uscendone per tempo senza dover affrontare le ambasce di oggi? Paradosso per paradosso, si potrebbe rispondere di sì, se solo la fabbrica fosse stata riconvertita in maniera oculata e non lasciata a marcire senza prospettive, ridotta allo spettro che è, tristissimo esempio di archeologia industriale.

condividi su: