di Massimo Palozzi - “Comunque vada, sarà un successo”. La famosa battuta di Piero Chiambretti alla vigilia del Festival di Sanremo del 1997 potrebbe essere presa a pieno titolo come slogan ufficiale della decima edizione della Fiera Campionaria Mondiale del Peperoncino che stasera chiude i battenti. Naturalmente sperando che il Covid non ci metta lo zampino soprattutto a causa degli assembramenti al concerto di Cristina D’Avena, capaci di provocare polemiche di risonanza nazionale e determinare una piccola rivoluzione nel programma delle esibizioni canore.
Per i bilanci ci sarà tempo. Le circostanze eccezionali con cui la rassegna si è dovuta confrontare li condizioneranno non poco. Sta di fatto che alla fine la cocciuta determinazione degli organizzatori ha prevalso, riuscendo nell’impresa di allestire la manifestazione in centro dopo un anno di assenza e nonostante la soppressione anche per il 2021 dei maggiori eventi estivi di Rieti, dalla processione di Sant’Antonio alla Festa del Sole.
Con tutti i caveat del caso, almeno ufficialmente il respiro internazionale dell’esposizione è stato mantenuto: già nel nome la fiera è “mondiale”. Delle 400 varietà di peperoncino in mostra nelle bacheche del chiostro di Sant’Agostino, molte provengono dall’estero e, sebbene in forma minore, non è mancata la presenza di rappresentanti diplomatici di un paio di paesi.
“Rieti cuore piccante” si picca insomma di essere un veicolo di promozione internazionale per il territorio attuando una sorta di inversione del classico percorso glocal (dal locale al globale, tipo l’Amatriciana) per convogliare sul Reatino il massimo interesse possibile intorno a un prodotto che tipico non è. Scelta ardita, che ad oggi, pandemia a parte, ha raggiunto i suoi obiettivi più immediati attirando una massiccia attenzione mediatica e promozionale, accompagnata da concretissime ricadute per l’economia cittadina. Senza però ancora riuscire ad emanciparsi del tutto dalla connotazione tipica della tradizione fieristica, con il “core business” del peperoncino apparso a volte in secondo piano o addirittura relegato a mero pretesto di contorno. Se l’aspirazione è di dare una caratura davvero internazionale all’intera rassegna, la sfida che attende Livio Rositani e i suoi collaboratori si annuncia particolarmente impegnativa.
In attesa della definizione identitaria della Fiera del Peperoncino, stretta fra il bello del “piccolo” e le ambizioni del “grande”, un deciso passo in direzione dell’abbandono delle suggestioni localistiche è stato appena compiuto con l’intenzione annunciata in settimana dal vicesindaco di Rieti Daniele Sinibaldi di indire una gara unica per la gestione unitaria degli impianti di risalita del Terminillo, mettendo insieme quelli di proprietà del Comune e quelli di proprietà della Provincia.
Dal punto di vista giuridico l’iter si presenta piuttosto complesso, ma il solco sembra tracciato. L’imminente conclusione dell’accordo quadro tra i due enti darà infatti il via alla delibera per individuare il sistema di qualificazione attraverso cui verrà messa a gara l’intera rete di impianti di risalita. La procedura sarà dunque riservata alle sole società che dimostreranno di possedere una consolidata esperienza nel settore per attrarre investitori di livello, secondo una filosofia riassunta così dallo stesso Sinibaldi:
“In termini di portata sul mercato, offrire impianti in un unico pacchetto può spingere imprese più grandi e qualificate a partecipare e, di riflesso, può condurre a un deciso rilancio della stazione montana”.
Il ragionamento non pecca di realismo. Al contempo pone però un problema di tenuta dell’imprenditoria locale, e segnatamente di quel manipolo di aziende che nel bene e nel male hanno negli anni fatto vivere il Terminillo.
Spesso si è notata una mancanza di strategia, se non proprio di prospettiva, nell’immaginare il futuro del comprensorio. Questa decisione segna senza dubbio una discontinuità, inseguendo un modello di sviluppo che rifugge dalle risorse umane del posto per affidare quelle naturali, ambientali e paesaggistiche a soggetti esterni, verosimilmente più interessati a un business slegato da Rieti che a promuoverne le sorti. Un po’ quello che è successo con la vendita delle farmacie di Asm.
Quando si è invocato l’arrivo di investitori strutturati, di grandi gruppi e persino di multinazionali, l’idea non era esattamente di soppiantare tout court le potenzialità presenti, bensì di rinvigorire una manifattura in declino o, ancor meglio, di sviluppare aree produttive scarsamente frequentate per creare vero valore aggiunto.
Non è detto che l’idea di un capitalismo travolgente su scala provinciale non porti frutti.
Basta solo essere coscienti delle conseguenze e non sottovalutare il rischio dell’appannamento della vocazione locale insieme a quello della marginalizzazione delle energie finora espresse dal territorio.
Un altro deciso balzo dal piccolo al grande si è infine concretizzato con pesanti ricadute negative per Rieti nelle scorse settimane, quando è diventato operativo l’accorpamento della Camera di commercio con quella di Viterbo. Dopo l’elezione a presidente del viterbese Domenico Merlani, mercoledì il consiglio camerale ha nominato gli altri cinque membri della giunta, tra i quali figura un unico reatino (Leonardo Tosti). Nessuno si era mai fatto soverchie illusioni che gli organi di governo del nuovo ente con sede legale nella Tuscia potessero premiare Rieti, ma cinque componenti su sei in giunta made in Viterbo dimostrano la reale composizione dei rapporti di forza.
A seguito della riforma Madia del 2015 a Rieti si è acceso un dibattito per la verità piuttosto dimesso intorno al destino della Camera di commercio, tra rassicurazioni politiche e ricorsi al Tar fino alla pronuncia della Corte Costituzionale, dove la novella ha resistito potendo spiegare appieno i suoi effetti. Ora che il capitolo è chiuso, risulta evidente come non si sia trattato di una fusione, quanto di una vera e propria annessione con l’assoluto e scontato predominio di Viterbo, reso inevitabile dai rispettivi numeri.
Un assaggio di accentramento di poteri e rappresentatività lo avevamo del resto avuto di recente con la creazione del Consorzio industriale unico regionale che ha assorbito i singoli consorzi provinciali del Lazio. Pure in questo caso le specificità territoriali sono state sacrificate alla logica della concentrazione, con lo scopo di costituire una massa critica in grado di spendersi meglio all’interno di un sistema economico fortemente globalizzato e competitivo. La tesi non è scevra da appunti e censure, per quanto confortata dall’esperienza di gestioni non sempre all’altezza. E comunque si tratta di un organismo regionale di nuova istituzione nel quale sono confluiti i consorzi provinciali dopo essere stati a loro volta sciolti. La battaglia parzialmente vinta sull’adeguamento delle quote di partecipazione (che nella prima stesura erano davvero misere per Rieti) conferma come i numeri alla fine giochino un ruolo determinante, ma per lo meno l’esercizio era propedeutico a tracciare il pomerio di una nascente entità. Nel caso della Camera di commercio non ci si può invece nemmeno aggrappare al conforto dell’azzeramento dell’esistente per la creazione di una nuova sovrastruttura. Resta solo
l’amarezza per una perdita secca, l’ennesima, con tanti saluti alla valorizzazione delle eccellenze locali. Insomma, siamo proprio sicuri che piccolo è bello ma grande è meglio?
05-09-2021