di Andrea Carotti - Il 31 Gennaio 2011, in seguito al calo della domanda di cartongesso, la US Gypsum chiuse la sua fabbrica di Empire, Nevada, dopo 88 anni. Nel mese di Luglio, veniva dismesso il codice postale 89405 di Empire. Questa la forte premessa di Nomadland, pellicola vincitrice dell’ultimo Festival di Venezia e che poi, pochi mesi dopo, avrebbe ottenuto sei candidature agli Oscar 2021 portandosene a casa ben tre (miglior film, migliore attrice protagonista e miglior regia). Chloé Zhao, regista cinese, arriva alla sua terza direzione dopo Songs my brother taught me e il molto apprezzato The Rider e si affida alla bravissima Frances McDormand per interpretare la star assoluta della storia, una vandweller con un trascorso difficile alle spalle che si ritrova, da un momento all’altro, a dover cambiare drasticamente la sua vita. Gli spazi immensi e la natura incontaminata degli Stati Uniti fanno da cornice al percorso che intraprenderà la protagonista regalando un’atmosfera contrastante, che si divide tra bellezza e timore, unione e solitudine, senso di appartenenza alla terra in cui viviamo e a cui troppo spesso non diamo il giusto valore.
Fern (Frances McDormand), una sessantenne del Nevada, ha perso il suo lavoro presso l'azienda nella quale lavorava a causa della Grande Recessione. Si trova senza lavoro e sola, dato che ha perso di recente il marito. Decide, quindi, di compiere un gesto inaspettato: vendere tutto quello che possiede per comprare un furgone e vivere on the road, alla ricerca di un lavoro. Fern si mette in viaggio verso gli stati occidentali, determinata a vivere come una nomade dei nostri giorni, al di fuori della società e delle classiche convenzioni.
Durante il percorso, incontra altri nomadi, con i quali condivide momenti importanti, ascoltando le loro storie personali e imparando qualche dritta su come vivere in strada. È grazie a questa nuova comunità che Fern riuscirà ad aprirsi e raccontarsi facendo della terra nomade la sua nuova vita.
Fin dalle prime inquadrature fredde e invernali conosciamo la protagonista che non abbandonerà mai la scena per accompagnare noi spettatori per tutto il suo avventuroso tragitto. Si parte con il lavoro ad Amazon, una soluzione lavorativa in cui molte persone si riconosceranno, “mi pagano bene” dice Fern con tono rassicurante mentre il viso esprime chiaramente emozioni diverse. Un simbolo di opportunità ma anche di insicurezza e instabilità lavorativa rappresentata dal colosso americano, un’incognita come la situazione che lei sta vivendo, la quale sembra chiaramente impaurita dalla sua nuova condizione cercando in qualsiasi occasione (come nella scena del briefing pre-turno di lavoro tipico delle aziende americane in cui il lavoratore dovrebbe venire teoricamente motivato ad affrontare il “poco” stressante turno lavorativo) di sdrammatizzare trovando il lato buffo delle cose e sorridere. All’ingresso dell’azienda vediamo un tempo cupo e grigio, mentre all’interno la m.d.p. riprende gli operai, il processo produttivo nel dettaglio e ci fa percepire la grandezza dei suoi spazi. Immagini che richiamano il cinema di Elio Petri, in particolare La classe operaia va in paradiso dove con uno stile di ripresa quasi documentaristico seguiamo i processi ripetitivi e meccanici industriali della fabbrica in cui il protagonista Gian Maria Volonté lavora e si troverà a battersi per i diritti dei lavoratori tra battaglie sindacali, proteste e manifestazioni contro i padroni capitalisti. Ironico come la profondità di campo e i campi lunghi delle riprese industriali si rispecchiano negli spazi aperti e sconfinati della natura come a voler denunciare la quantità di posti (in cui vivere e lavorare) che sono a nostra disposizione eppure, paradossalmente, quanta fatica si deve fare per trovarne uno.
Sotto suggerimento dell’amica Linda May (interpretata da sé stessa, una vera nomade) Fern sale sul suo van rinominato aVANtgarde (avanguardia) e, canticchiando la bella quanto triste melodia di Greensleeves (canzone tradizionale inglese), decide di raggiungerla al campo VanLife di Bob Wells, guru del movimento di nomadi su quattro ruote che si spostano di Stato in Stato alla ricerca di oasi di mutuo soccorso e pratiche di esistenza fuori da ogni schema capitalista. Al suo arrivo trova la comunità ad ascoltare il discorso di Bob sulla tirannia del dollaro: “Il cavallo da soma che lavora fino allo sfinimento per poi essere messo da parte”. Fern conosce Swankie, una donna anziana con la passione per le pietre che le confida di avere un brutto male e che non le resta molto tempo da vivere, ma ha vissuto, afferma lei, abbastanza da accettare questo destino e conforta la sua nuova amica a proposito del marito scomparso dicendole che lei gli è sicuramente stata il più vicino possibile e di non pensare che avrebbe fatto meglio ad aumentare la dose di morfina per non farlo soffrire perché magari lui voleva stare il più tempo possibile vicino a lei (critica sull’eutanasia). Fern fa parte di una tribù adesso, una comunità che si aiuta a vicenda, circondata dai paesaggi più belli immaginabili. Non dovrebbe vivere di questo la società? La nostra relazione con la Terra è relegata all’immagine di una Natura ormai impossibile da decontaminare. Fern si rende conto di non trovare sostanziale differenza o distacco tra lo scambiare oggetti nei mercatini nomadi ambulanti e l’impacchettare prodotti tra le mura dei magazzini di Amazon: la necessità di una condizione di produttività in un contesto sconfinato come quello della natura eleva il tutto a concetto universale. La conoscenza di persone nuove è fondamentale nel film di Chloé Zhao che fa anche un velato omaggio ad Into the wild di Sean Penn quando fa incontrare un ragazzo nomade alla nostra Fern la quale gli regala un accendino, dono che successivamente le verrà ricambiato incontrandolo di nuovo per la strada. La nostra protagonista conoscerà Dave (David Strathairn) con il quale stringerà un rapporto di affetto, la raccomanderà per un posto di lavoro insieme a lui al Wall Drug (dove si occuperanno di ristorazione) e con il passare del tempo i due saranno sempre più in sintonia fino a dare l’illusione che possa nascere qualcosa di speciale tanto che Dave la inviterà a venirlo a trovare a casa sua. Lei accetterà e una volta lì lui la inviterà a restare con lui e la sua famiglia nella dépendance inutilizzata, ma nonostante il tentativo lei si sveglierà nel cuore della notte per scappare da una vita che sembra non appartenerle più e tornare nel van che ormai sente essere la sua casa. "Home is it just a word? Or is it something that you carry within you"? cantava Morissey con i The Smiths che il film delicatamente cita. Casa è solo una parola o è qualcosa che ti porti dentro? Sicuramente Fern porta sempre con sé il ricordo del marito, che non la lascia andare. Sarà il secondo incontro con Bob Wells che riuscirà a sbloccare qualcosa in lei. Fern confida di essere in qualche modo intrappolata nei ricordi. Bob le racconta di avere perso un figlio cinque anni prima e che per molto tempo si chiedeva come poteva continuare a vivere senza di lui. Ha capito di poter onorare il figlio mettendosi al servizio degli altri, dando a sé stesso una ragione per affrontare la giornata. Nel campo che gestisce c’è molta gente con questi problemi, lutto e dolore, molti non riescono a superarli e bisogna conviverci. Una delle cose che ama di più della sua vita, confida Bob, è che non c’è mai un addio definitivo, si conoscono centinaia di persone e non si dice addio a nessuno, ma solo “ci vediamo lungo la strada”, e che siano mesi o anni rincontrerà prima o poi quelle persone e può essere sicuro che lungo quella strada rivedrà suo figlio un giorno. “Tu rivedrai tuo marito, e potrete ricordare le vostre vite insieme”. In questa scena Frances McDormand senza dire una parola ma ascoltando e basta le parole di Bob regala una performance incredibile e il sorriso finale prima dello stacco dell’immagine è così struggente e allo stesso tempo liberatorio da risultare perfetto. Dopo l’incontro rivelatorio con Bob, Fern decide di tornare a Empire che ormai è diventata una ghost-town per percorrere ancora una volta quello che sembra essere adesso un terreno post-apocalittico dove aleggiano le proiezioni di ricordi di una vita che è stata. Un’atmosfera che ricorda la Roma periferica descritta da Matteo Garrone in Dogman, un territorio abbandonato a sé stesso, un luogo fantasma che sopravvive. Un ultimo viaggio nei ricordi sembra, quello di Fern, che poi vediamo riprendere il suo van e immergersi in sconfinati canyon percorrendo una strada deserta e dando il via a quello che sarà il secondo tempo della sua esistenza, perché il suo viaggio non è finito. E per tutto il resto, ci vediamo lungo la strada.
Tratto dal romanzo di Jessica Bruder, il risultato è determinato dalla regia coinvolgente ma leggera di Chloé Zhao che probabilmente non lascia uno stile marcato decidendo di puntare su una regia accademica mettendo il focus sulla splendida fotografia, sui grandangoli, sulla profondità di campo veramente ben gestita che rende la pellicola uno spettacolo visivo per chi lo guarderà al cinema. La regista cinese che adatta la sceneggiatura e si occupa anche del montaggio, su quest’ultimo alcuni problemi sono presenti, soprattutto nella seconda parte del film in cui si passa da alcune situazioni ad altre troppo velocemente rompendo un po’ il ritmo della storia che comunque rimane sempre stabile. Il film ti tiene sempre incollato allo schermo e grandissimo merito va alla strepitosa Frances McDormand, qui anche produttrice, protagonista assoluta che si cala nella parte alla perfezione, dimostrando una sensibilità, presenza scenica, uso degli occhi e dello sguardo unici. Si mette in spalla il peso di tutto il film recitando la parte di un personaggio che è spesso spettatore di quello che succede poiché molti personaggi della storia non sono attori ma veri nomadi. Quindi spesso sembra che lei si assenti (ad arte) per lasciare spazio alle storie di queste persone, imparare qualcosa per poi metterlo al servizio del suo personaggio. Non è certamente una sorpresa McDormand, tra le migliori attrici in circolazione, vincitrice di quattro premi Oscar e a meno uno quindi dalla divina Katharine Hepburn. Una garanzia. David Strathairn (Dave) lavora in fragilissima sottrazione, l’amore sfiorato tra i due è l’aspetto che emana il calore maggiore tra le immagini proposte dalla cineasta. Meravigliosa la colonna sonora di Ludovico Einaudi alternata a brani country folk tipici statunitensi.
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