a cura di Massimo Palozzi

Dicembre 2022

IL DOMENICALE

NATALE CON CARAVAGGIO?

di Massimo Palozzi - Mentre prosegue con successo la mostra diffusa “Alla ricerca del bello sulle tracce di Ricci e Canova”, una notizia potenzialmente esplosiva giunge da Terni, dove è in corso dal 27 ottobre e fino all’8 gennaio a Palazzo Leoni la rassegna “Dramma e passione da Caravaggio ad Artemisia Gentileschi”.

Il professore, artista e storico Alvaro Caponi ha infatti ritenuto di attribuire proprio a Caravaggio l’“Angelo custode” presente nella chiesa di San Rufo in pieno centro a Rieti. Come raccontato in un articolo pubblicato mercoledì su umbria7.it, a parere di Caponi il dipinto è sicuramente opera di Michelangelo Merisi, che all’epoca si era stabilito a Roma in una casa a Campo Marzio di proprietà dei coniugi reatini Prudenzia Bruni e Bonifacio Sinibaldi, titolare quest’ultimo di una rivendita di pellami nella centralissima via della Scrofa (il contratto di locazione risulta stipulato l’8 maggio 1604). Oltre ai canoni arretrati, Caravaggio sarebbe stato chiamato a rifondere pure il ripristino di alcuni ambienti dopo aver abbattuto delle pareti per allargare gli spazi e avere più luce per dipingere. L’artista, noto non solo per l’abilità pittorica ma anche per la sua vita piuttosto avventurosa, si era indebitato con Sinibaldi per non essere riuscito a pagare l’affitto, tanto da subire un sequestro di beni, tra cui cinque quadri. Nella ricostruzione dell’esperto ternano, uno sarebbe proprio quello della chiesa di Rieti.

Nello studio il pittore viveva con il suo garzone e unico allievo, conosciuto proprio come Cecco di Caravaggio. Caponi cita i notai che presero parte al sequestro: il primo era Mariano Pasqualone, che denunciò il Merisi al tribunale criminale del governatore di Roma per averlo bastonato alle gambe e colpito in testa con il piatto della spada. Il nome dell’altro notaio era invece Alberto Roscetti, il quale si incaricò di eseguire il provvedimento, annotando tutti i beni dell’artista.

L’Angelo custode si trova nel primo altare a sinistra ed è l’opera di maggior pregio della chiesa di San Rufo. Anzi è la tela più importante conservata in città. Raffigura un episodio biblico contenuto nel libro di Tobia: il salvataggio da parte dell’Arcangelo Raffaele del giovane Tobiolo, inviato dal padre a riscuotere una somma di denaro lungo una strada irta di pericoli. Le due figure si stagliano nette e vivide su un fondale nero. L’Arcangelo Raffaele è raffigurato come un angelo alato che abbraccia a protegge il ragazzo mentre osserva pieno di timore il dirupo in cui rischiava di precipitare (metafora della tentazione del demonio).

Ad onor del vero, l’attribuzione del dipinto a Caravaggio non è una novità. Il contrasto cromatico, il gioco di luci e ombre, la precisione dei dettagli anatomici portarono a considerare a lungo il quadro come opera della maturità dell’artista lombardo, almeno fino all’Ottocento, quando la sua paternità fu messa in dubbio per ascriverla alla scuola caravaggesca ma non alla mano del maestro.

L’artista reatino Giuseppe Colarieti Tosti, che restaurò la tela nel 1912, la considerò invece opera del Merisi, ma nella prima metà del Novecento vennero rinvenuti dei documenti che la facevano risalire al periodo compreso tra il 1610 e il 1618. Essendo l’artista morto il 16 luglio del 1610, il disallineamento temporale sembrava aver risolto una volta per tutte l’enigma in favore della tesi contraria alla paternità dello stesso Caravaggio. Il quadro fu pertanto attribuito dapprima ad Orazio Gentileschi, quindi a Giovanni Antonio Galli, detto lo Spadarino, entrambi discepoli del grande maestro.

Tuttavia, nell’ottobre 1996 un’analisi più approfondita condotta da Marlena B. McGrath produsse risultati sorprendenti, in grado di ribaltare quella che era ormai diventata la spiegazione ufficiale. Sotto il dipinto venne infatti scoperto un altro disegno con tratti che indussero la studiosa ad evidenziare in particolare la somiglianza della testa dell’Arcangelo Gabriele con quella del Narciso di Caravaggio, olio su tela realizzato tra il 1597 e il 1599, attualmente conservato a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Antica a Palazzo Barberini.

Anche quest’opera ha avuto in realtà parecchia incertezza circa la sua attribuzione. Come il quadro conservato a San Rufo, fu oggetto di un articolato dibattito tra gli esperti che lo volevano frutto dell’ingegno dello stesso Spadarino, o di Orazio Gentileschi, Niccolò Tornioli e altri esponenti di ispirazione caravaggesca. Alla fine si impose la tesi dello storico dell’arte Roberto Longhi, che a metà del secolo scorso intese attribuirlo al genio di Michelangelo Merisi.

Tutte queste coincidenze hanno convinto il professor Caponi che l’Angelo custode di San Rufo è senza dubbio riferibile a Caravaggio. Probabilmente non si tratta della versione definitiva sulla paternità dell’opera. La storia dell’arte è piena di affascinanti misteri e la tela reatina rientra appieno in questa categoria. Certo che, se fosse confermata, la presenza a Rieti di un’opera di Caravaggio moltiplicherebbe il prestigio del patrimonio artistico cittadino, con ovvie ricadute sul piano della rinomanza del capoluogo tra gli appassionati della materia e non solo.

Una doverosa prudenza impone di misurare gli entusiasmi, però varrebbe la pena approfondire la traccia per dare sostanza a una ricostruzione che non è più solo una mera ipotesi di studio.

Nel frattempo c’è da pensare al recupero della chiesa di San Rufo che, oltre alla tela caravaggesca, custodisce altre opere di straordinario valore, tra cui le pareti della sagrestia affrescate a fine Ottocento da Antonino Calcagnadoro con motivi decorativi a mosaico.

Come altri antichi edifici, la chiesa è chiusa dal 2018 a seguito dei danni prodotti dal terremoto di due anni prima. Risalente all’873, è intitolata al santo martirizzato nel 305 nel corso della persecuzione scatenata contro i cristiani dall’imperatore Diocleziano. Secondo una versione non del tutto accreditata, Rufo avrebbe subito il martirio proprio a Rieti, nel corso di un viaggio da Roma verso la Marsica.

Nel 1141 la chiesa venne riedificata sula base dell’edificio primitivo per essere infine ricostruita nella forma attuale nel 1748 dall’architetto romano Melchiorre Passalacqua. Dopo tanto tempo, meriterebbe una sorte migliore della mesta chiusura a cui è stata condannata finora.

 

18–12-2022

condividi su: