Nel cuore dell’inverno, ci sono attimi felici in cui si sente già la promessa della primavera: basta a volte una folata di vento più mite, una scintilla di luce che tarda a spegnersi al tramonto per incoraggiarci a pensare con un po’ di ottimismo al futuro.
Certo in passato era forse più facile percepire i passaggi di stagione, quando la città era molto più verde e vegetata, con i suoi orti lambiti dal Velino, irrigati dal Cantaro e dalle Cavatelle.
Ce lo rivela la pianta assai dettagliata del Catasto Gregoriano, custodita presso l’Archivio di Stato. I rilievi, effettuati tra il 1 aprile e il 31 maggio del 1820, furono effettuati dal geometra Agostino Longhi, con l’assistenza di Antonio Longhi e Francesco Marinelli e la consulenza di Giovanni Fiordeponti, sotto la direzione dell’Ingegnere Ispettore Angelo Pasta incaricato dopo la restaurazione della mappatura del territorio dello Stato Pontificio, interessato ad un impegnativo riassetto amministrativo.
L’accuratissimo schizzo acquerellato non si limita alla campitura degli spazi destinati al verde pubblico e privato, ma descrive lenticolarmente i giardini all’italiana dei palazzi nobiliari, le coltivazioni più estese che fiancheggiano la riva destra del fiume ordinate nelle tradizionali rasette che facilitano la semina, l’irrigazione ed il raccolto, i grandi orti dei conventi e dei monasteri, i piccoli orti domestici all’interno delle mura, da porta d’Arce a porta Cintia che integrano il vitto delle famiglie dei rioni più popolari, definiti fin nelle singole colture: le larghe foglie delle rape, le cime tondeggianti dei cavoli, i cespi d’insalata. Benché la popolazione urbana fosse all’incirca soltanto un quarto dell’attuale, la città appariva fittamente popolata, circoscritta com’era entro le mura ancora integre.
Il fiume offriva di che vivere, comoda via d’acqua per il trasporto delle merci stoccate nei magazzini di via del Porto, prossima tanto all’approdo pubblico quanto al porto privato dei Nobili Vitelleschi, che lascia traccia di sé nel toponimo di Fiume dei Nobili, ma anche inesauribile fonte di energia per alimentare i mulini e le botteghe artigiane in cui si producevano utensili e materiali diversi.
Non c’era casa in cui non si provvedesse a filare e tessere la canapa lavorata in riva al fiume, perché fosse possibile munire le figlie di un adeguato corredo.
Gli agricoltori che coltivavano le floride Porrara avevano la capanna in campagna, la casa in città, per quanto piccola e modesta: ma le dimensioni di ogni dimora erano funzionali alle esigenze materiali ed agli stili di vita di ciascuno, definite da convenzioni che sembravano ancora immutabili, o meglio destinate a non mutare, nonostante la ventata di novità portata sulle bandiere dell’esercito napoleonico, che lascia traccia della sua presenza in quella via del Burò in cui si traslittera il francese bureau, dal momento che gli uffici pubblici al tempo del Regno d’Italia ebbero sede a palazzo Capelletti, confiscato per soddisfare alle esigenze dell’amministrazione civica.
Chissà quali profumi, quali colori, quali atmosfere sapeva regalare al tempo questa nostra città che non riusciamo a risvegliare dal suo torpore... Ma confidiamo nella primavera.
LA PIANTA DEL CATASTO GREGORIANO

storia