(di p. Lucio Boldrin) Da settembre sono al servizio dei detenuti nel carcere di Rebibbia a Roma. In altre occasioni ho avuto modo di esprimere come in carcere lavorino molte persone bravissime nel compiere il proprio dovere. Educatori (spesso educatrici), psicologi, insegnanti, direttori, amministratori e anche guardie: si respira un’aria di professionalità che è impossibile da ignorare. La professionalità inoltre ti aiuta a mantenere un filtro personale alto. L’attività che svolgi dentro è molto coinvolgente sul piano emotivo. Quando dico molto intendo dire: assai. E non per qualche animella sensibile: per tutti, pure per “gli stronzi”. Allora a un certo punto hai bisogno per forza di raccontartela: mi coinvolgo emotivamente perché questo coinvolgimento è parte essenziale del mio servizio. Guai se mancasse.
Altra sensazione è che le energie profuse là dentro siano abbastanza inutili: arginano un’onda che la mattina dopo rimonta uguale a prima. Una fatica necessaria a non affogare, ma una fatica di Sisifo (personaggio della mitologia greca - indica un'impresa che richiede grande sforzo senza alcun risultato). Il macigno di inutilità che questa gente ogni giorno tira su per la salita è l’inutilità intrinseca del carcere. Il carcere così come è non serve a niente.
Non tirerò in ballo le opinioni di giuristi insigni o di grandi sociologi, tutti concordi nell’affermare che, così com’è concepito in Italia, il carcere sia uno strumento privo di efficacia (le trovate ovunque), ma riferirò una cosa che a me ha colpito da subito e che però non sento dire quasi mai.
L’aspetto punitivo del carcere, quello che ci fa vedere come un castigo (per alcuni addirittura giusto, o meritato) la permanenza in una piccola cella di molte persone, con poco o nessuno spazio vitale a disposizione e zero privacy è ciò che a primo impatto più sconvolge chiunque ne visiti uno.
Se non ci siete mai stati, pensate se qualcuno vi dicesse che da domani dovrete defecare davanti a sei o quattro persone, nella stessa stanza dove mangiate e dormite, se siete fortunati separati da una tenda: e che dentro a quello stesso bagno in cui defecate in sei, poi dovrete lavarci le stoviglie, la biancheria e pure voi stessi. Ecco, pensate solo a questo, cioè all’impossibilità di avere a disposizione momenti di personale e necessaria solitudine per tutto il tempo della vostra pena e avrete un’idea dell’inumanità di quella condizione.
Ci siamo? Ci state pensando? Vi state sentendo inumani? Vi sentite ridotti un po’ a bestie? Ecco, ora vi dico un’altra cosa: in molti casi non è neanche una punizione. Quindi come punizione oltre a essere inumana è pure inutile.
E in queste situazioni noi addetti ai lavori siamo chiamati a mantenere alto il senso del rispetto umano verso se stessi, se non addirittura insegnarlo. Ben poco si riesce a fare se non si attuerà una riforma, attesa da troppo tempo. Recuperare alla società chi è stato in carcere è molto più di un atto di solidarietà. E’ un principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana, che parla esplicitamente di rieducazione del condannato. Fatto che non avviene dato l’alto tasso di recidività dei reati che porta un 80/85% dei detenuti a ritornare in carcere. Come si può chiamare ciò se non un fallimento della tanta auspicata dimensione rieducativa che dovrebbe avere una detenzione carceraria? Il recupero e l’inclusione dei carcerati ed ex carcerati è un aspetto fondamentale nell’amministrazione della giustizia: troppo spesso l’esperienza della detenzione finisce per rafforzare l’esclusione del condannato e spingerlo a rientrare negli ambienti illegali e criminali anziché essere aiutato a rientrare in famiglia, cercare un lavoro, affrontare una società per cui é ormai un "etichettato".
Vi assicuro che molti hanno paura nel tornare in libertà. Il fine pena è vissuto con paura, incertezza, e solitudine umana e sociale. Qualche detenuto spera di terminare la sua vita in carcere: davanti ha solo il vuoto lavorativo e familiare. Quanti detenuti ho visto abbandonati dalla compagna, dai figli o da genitori che non li rivolevano a casa! Umanamente comprensibile in certi casi. Ma dove andranno queste persone se nessuno le vuole? Il carcere è sempre più lo specchio della società che viviamo all’esterno. L’elemento peggiore, causato dalla inefficienza di una vera riforma carceraria è che il carcere è divenuto la “discarica sociale”: un cercare di allontanare dagli occhi e dalla strada quelli che “consideriamo malati e pericolosi”, ma senza prendersi cura per cercare una terapia per il loro recupero. In carcere direi che, da quanto ho incontrato, circa un 60%, se non di più, è finito nei guai a causa della maledetta droga, ma vi sono anche persone cadute in povertà costrette a commettere reati o per necessità o ingenuità, malati psichici, barboni, stranieri e non pochi rom. Insieme a delinquenti, ladri e truffatori di professione, mafiosi e camorristi, assassini…ma anche innocenti. Tutti trattati nello stesso modo. L’unica differenza la fa “il dio denaro” anche in carcere. Denaro che ti permette di trovarti i migliori avvocati, e non avere solo quelli d’ufficio. Puoi permetterti di fare la spesa e mangiare quello che più ti aggrada facendolo venire da fuori. Il sabato e la domenica, anche da un ristorante convenzionato. Comprarti ciò che ti serve: dal tabacco a ciò che occorre per l’igiene personale, ai vestiti e alla biancheria intima. Senza dover attendere che sia il cappellano a portarteli, grazie all’aiuto di persone esterne, associazione e dalla Caritas. Una cosa che non comprendo è perché in carcere tutto debba costare di più.
Anche in questo mondo si sta cercando di ricominciare dopo 100 giorni di lockdown causato dalla pandemia, tre mesi lunghissimi e pesanti per tutti. In carcere ancora di più: processi rinviati e che vanno già alla lunga per il muoversi pachidermico del nostro apparato giudiziario; sospese tutte le lezioni di ogni grado; interrotti gli incontri con i volontari, i familiari; sfumata la possibilità di lavorare all’esterno per chi ne aveva ottenuto il permesso. Tutto limitato tranne le lunghissime ore vissute in branda (in certi reparti 21 ore su 24), la mancanza di un abbraccio o di uno sguardo di un familiare, o dietro smartphone (da poche settimane e solo per 45 minuti ogni 7 giorni), se hai soldi e parenti in Italia.
Più che mai questa pandemia ha reso urgente una revisione della realtà detentiva o la necessità di pene alternative alla carcerazione anche allo scopo di fare scendere il sovraffollamento presente e per il quale l’Italia è già stata sanzionata. Ma ciò sembra interessare ben pochi e così le carceri continueranno a partorire altri delinquenti: di chi sarà la colpa?