a cura di Lucio BOLDRIN

Febbraio 2019

LUCI&OMBRE

CALCIO: POSSIAMO ANCORA CHIAMARLO...GIOCO?

sport

(di Lucio Boldrin) Attraverso i media è penetrato nella vita di tutti: uomini e donne, bambini ed adulti, ricchi e poveri ecc...; il calcio è un fenomeno sociale e interculturale che coinvolge comunità intere e che continua ad aumentare il suo valore sociale ed economico. Nel nostro paese, il solo calcio coinvolge più di un milione di atleti professionisti e non, e impegna circa mezzo milione di operatori tra dirigenti, tecnici e ufficiali di gara (Coni). Queste statistiche, inoltre non tengono in considerazione i numerosi praticanti che, pur utilizzando strutture o impianti, non sono iscritti ad alcuna associazione.

Il calcio non è solo ma passione, ma sempre più business. E' uno dei settori economici più importanti nel nostro paese. Il calcio moderno sia in Italia che nel resto d’Europa costituisce  un giocattolo prezioso di svariati miliardi di euro. Uno studio di qualche anno fa misurava in più di 10 miliardi d’euro all’anno il fatturato del calcio europeo, numeri che si ripetano ormai dagli anni ’90. Il calcio è diventato uno dei più grandi business mondiali, una gigantesca macchina da soldi che ogni anno produce un Pil superiore agli affari di moltissimi stati. Il fatto che il nostro paese sia una nazione “pallonara” che vive di calcio dodici mesi l’anno non è una novità. Le grandi del calcio europeo, fatturano svariati milioni di euro attuando strategie societarie che vanno ben oltre lo sport, riversando enormi sforzi finanziari in attività di marketing, comunicazione e attività di promozione del marchio, anche attraverso strategie di estensione del marchio.
Il calcio più ricco d’Europa è quello inglese, la Premier League fattura quasi 2 miliardi di euro all’anno contro 1, 6 miliardi della serie A italiana. Analizzando in dettaglio la provenienza dei ricavi maggiori dei club è interessante notare come la quota più rilevante, in Italia oltre il 50%  del totale, derivi dalla vendita dei diritti televisivi. Il resto arriva dagli introiti delle partite (16%), dagli sponsor (14%) e da altre attività (17%) come il merchandising (es. vendita magliette). Inoltre va sottolineato che, mentre all’estero la crescita è sostenuta e costante, in Italia i ricavi sono aumentati quasi esclusivamente grazie ai contratti delle pay-tv, giunti anche a condizionare gli orari delle partite.
Tali maggiori ricavi hanno consentito, senza contare l’incremento che hanno avuto gli stipendi dei calciatori, soprattutto i più affermati, ricoperti d’oro dalle loro squadre a creare sempre una maggiore disparità tra club ricchi e... quelli di provincia. A fronte di investimenti azzardati e di tale spregiudicatezza, oltre la mancanza di un tetto sia per la compravendita dei calciatori sia per i loro stipendi, ha condotto molti club italiani a crisi finanziare che nei casi estremi hanno portato o al ridimensionamento o al fallimento della società stessa.
L’attenzione agli aspetti del bilancio dei grandi club non va sottovalutata in quanto gran parte di essi sono quotati in borsa ed hanno dunque responsabilità verso gli azionisti. Inoltre negli ultimi anni ha preso piede fra le società calcistiche il ricorso a delle operazioni finanziarie, le cosiddette plusvalenze, spesso fittizie, per riequilibrare al meglio le voci di bilancio. E quello che è accaduto al Chievo e al Cesena docet. Siamo sempre più proiettati verso un calcio, dove non c’è più spazio “per le favole” o le squadre di provincia, ma sempre più dove i soliti noti la faranno da padroni, e anche i diritti Pay-Tv: basta pensare che se uno fa l’abbonamento, non saprà quante partite riuscirà a vedere tra posticipi e anticipi decisi in campionato in corso. E questo non è più il calcio che mi emozionava.

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