di Andrea Carotti - Dal 2 ottobre 2020 è approdata su Netflix l’attesa serie tv “Emily in Paris” prodotta e interpretata da Lily Collins, una commedia romantica leggera e senza troppe pretese che ha riscosso un buon successo di pubblico in tutto il mondo.
Il fattore che ha catalizzato maggiormente l’attenzione è stato l’acceso dibattito e le polemiche relative ad alcune tematiche trattate nella serie che hanno scatenato, soprattutto tra il pubblico francese, un po’ di indignazione per come il loro popolo è stato rappresentato.
Creata da Darren Star, la serie televisiva racconta le vicende di Emily, una ventenne di Chicago che si occupa di marketing per conto di un’azienda della città. Un giorno riceve la proposta dalla titolare di sostituirla trasferendosi per un anno a Parigi poiché quest’ultima è incinta e non può più partire. Il lavoro di cui si dovrà occupare sarà quello di portare un punto di vista americano presso un’agenzia parigina, nota per essere da anni nel campo della moda di lusso.
La premessa non è certo nulla di originale e probabilmente risulta una cosa già vista e rivista ma era interessante il tema del confronto/scontro tra due culture, quella europea e americana, che per molti aspetti sono ben differenti proprio per motivi prettamente tradizionali e culturali. Parigi, in questo caso funge da punto di riferimento per rappresentare lo stile di vita e la mentalità europea. La serie già dal principio decide di adottare uno stile teen comedy rivolto prevalentemente ad un pubblico di adolescenti, e non ci sarebbe nulla di male se non fosse per diverse scelte di sceneggiatura adottate veramente insensate che spesso sfociano nel delirio puro. Sembra che l’unico obiettivo del prodotto sia di intrattenere mediante l’uso dei soliti cliché romantici stereotipati piuttosto che concedere più tempo all’analisi della realtà in cui Emily si trova a vivere, che sia politica, sociale o culturale; si sofferma invece a mostrare una Parigi con i suoi cittadini che sembrano usciti da una sfilata di moda, è incredibile come ogni uomo o donna che Emily incontra sia sempre vestito/a all’ultima moda o uscito/a da un’agenzia di modelli/e. Sarebbe stato interessante affrontare quelli che sono i travagli delle giovani generazioni, che spesso si trovano costrette a lasciare il proprio paese, i propri affetti in cerca di occupazione non conoscendo bene magari, come Emily, la lingua di destinazione.
Ci si trova di fronte in poche parole a un mix di Sex and the City, Gossip Girl con una spolverata di Midnight in Paris con il quale in comune ha giusto qualche fotografia parigina, sia mai accostare la magnifica opera di Woody Allen a questa serie. Emily in Paris è una sfilata in 10 episodi degli abiti eccentrici che indossa Lily Collins, dove quest’ultima si ritrova a vivere nella città dei sogni, trovando nuovi amori e il lavoro che ha sempre voluto. Tutto questo a circa 20 anni. Ma esattamente, a chi si rivolge questa serie e soprattutto, ma chi vuole prendere in giro? Ed è qui che emerge il problema più grande della serie: alla protagonista viene offerto tutto su un piatto d’argento, quando sembra incontrare un ostacolo dopo pochi minuti le si presenta un deus ex machina in una maniera così distante dalla realtà da far risultare il personaggio di Lily Collins adorabile quanto detestabile. Diventare un manager esperto di marketing e una influencer con migliaia di followers non è mai stato così facile secondo la visione di Darren Star. Sembra che basti postare le foto delle vie e delle attrazioni parigine o dei croissant presi nelle boulangerie di Montmarte per diventare la nuova Chiara Ferragni. Anche in questo caso poteva essere veramente interessante scoprire il lavoro che c’è dietro molti influencer, l’impegno che molti mettono per raggiungere un seguito considerevole, ma qui si rimane sulla superficie, sul banale, soffermandosi al massimo sulle ragazze che si fanno i selfie con il bacetto, fotografano il cibo, o dei video agli eventi di moda mondani.
Emily in Paris è una menzogna ben incartata, non rappresenta veramente le nuove generazioni ma quello che vorrebbero essere. Purtroppo lo spettatore a fine episodio si ricorda che vive nella realtà e non in una favola. Si nota la volontà di Star di riportare sul piccolo schermo qualche iconico personaggio visto in Sex and the City e sicuramente ci riesce anche grazie a un’ottima interpretazione di Lily Collins che le è valsa la nomination ai Golden Globe. Anche la scelta di circondarla di amiche con cui parlare e spettegolare richiama alla serie degli anni ’90. Spicca l’umorismo tagliente di Ashley Park nel ruolo di Mindy Chen, una ricca ereditiera cinese che scappa dalla pressione dei suoi per cercare di raggiungere il suo sogno in maniera indipendente a Parigi. Tutto sommato la serie, seppure con problemi evidenti, risulta scorrevole grazie alla scelta intelligente di far durare ogni episodio una mezz’ora, bilanciando le banalità delle scelte narrative. Sicuramente un punto di forza è, in breve, la capacità che ha la serie di essere divorata tutta d’un fiato. Un prodotto in pieno stile Netflix che fa breccia nel pubblico più giovane grazie allo stile di narrazione leggero e pop che lo contraddistingue. La regia pecca di profondità nelle inquadrature della capitale francese e si concentra invece quasi totalmente sulla protagonista, le sue emozioni, gli abiti che indossa, gli eventi a cui partecipa facendo immergere lo spettatore nell’avventura più sogno che realtà che essa vive.
Emily in Paris in fondo è un’opera che vuole vincere facile con il suo immediato intrattenimento, i cliché romantici, elementi di cultura pop che alla fine riescono a divertire, peccato per la superficialità con cui molti temi vengono trattati e per delle ingenuità di scrittura poco credibili e forzate che fanno assumere alla serie un aspetto di plastica, una caramella invitante e ben confezionata, ma amara e che non lascia un buon sapore in bocca.