a cura di Massimo PALOZZI

Gennaio 2019

POLVERI SOTTILI

DIALOGO RELIGIOSO

società

(di Massimo Palozzi) Si è svolto domenica in Cattedrale il primo dei tre appuntamenti per la settimana di preghiera ecumenica dedicata ai fedeli delle diverse confessioni cristiane presenti a Rieti: cattolici, protestanti e ortodossi, secondo una formula che prevede tre incontri ospitati nei luoghi di culto di ciascuna chiesa. A presiedere la liturgia è stato il vescovo Domenico Pompili, affiancato dal pope ortodosso Constantin Holban e dal pastore avventista Daniele Benini.

La data tradizionale di questi incontri va dal 18 al 25 gennaio perché simbolicamente compresa tra la festa della cattedra di san Pietro e quella della conversione di san Paolo.

ll tema scelto per quest’anno è tratto dal libro del Deuteronomio e verte su una raccomandazione di Dio al suo popolo che sta per entrare nella terra promessa: il Signore chiede ai suoi figli che possano risplendere tra gli abitanti delle città in cui vivranno e lavoreranno, come segno della sua presenza e misericordia. In particolare, è la domanda di giustizia a guidare le riflessioni dei chierici.

Sebbene ravvicinate dalla comune fede in Cristo, il confronto e, a maggior ragione, l’unità fra le tre confessioni sono difficili perché risentono in maniera decisiva delle vicende storiche che hanno portato all’allontanamento e alla divisione. Ancor più complicate e complesse sono poi le relazioni tra le diverse religioni. Al di là della stretta dimensione spirituale, non sfugge quindi l’importanza sotto il profilo della buona convivenza di iniziative come quelle sul dialogo interreligioso promosse dal Vaticano e dalle singole diocesi o i momenti di comunione e preghiera per l’unità dei cristiani.

Gli incontri del 2019 cadono poi nella ricorrenza del ventesimo anniversario della morte di Fabrizio De André, che sui temi della fede ha scritto pagine memorabili dando voce (e che voce) agli interrogativi che da sempre graffiano l’animo umano, pur nel segno di una spiccata laicità.

La sua è stata una ricerca continua verso l’infinito e l’assoluto, condotta attraverso l’elevazione spesso provocatoria degli ultimi o l’approfondimento intellettualmente sfidante di temi prettamente religiosi. “La buona novella”, disco scritto esattamente cinquant’anni fa, recava ad esempio il marchio abrasivo di un autore che al tempo dichiarava di averlo composto con l’urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo. La rilettura dei vangeli apocrifi e la narrazione più umanizzata della predicazione di Gesù esplosero nel climax del Sessantotto italiano, tanto che a De André fu rimproverato il disimpegno nei confronti dei temi ritenuti allora preminenti in favore della riproposizione della vicenda di Cristo, considerata invece dai principali esponenti della contestazione inattuale e poco degna di attenzione.

Il suo messaggio non venne compreso appieno né da una parte né dall’altra. Fu lo stesso De André a spiegare che quel concept album voleva essere un’allegoria tra le istanze migliori del ‘68 e quelle (certo spiritualmente più elevate) promosse quasi due millenni prima in nome dell’egalitarismo e della fratellanza da colui che reputava il più grande rivoluzionario di tutti i tempi, con venature addiritture anarchiche. L’associazione non piacque alla Chiesa di allora, che già nel 1967 aveva censurato un altro brano del cantautore genovese, “Lo chiamavano Gesù”, in cui veniva rifiutata la discendenza divina “di chi penso non fu altri che un uomo”.

Da allora molte cose sono però cambiate. Il Sessantotto è finito nel dimenticatoio, ghermito da una risacca che ne ha fatto strame. La figura di De André è stata ampiamente rivalutata, pur con tutte le annotazioni critiche sulla sua cifra artistica, anche dalla Chiesa, sempre più incline all’ascolto e al confronto invece che all’ostracismo e allo stigma. E’ un segno dei tempi, ahimé non molto in voga tra le classi dirigenti di oggi, che troppo spesso si sentono depositarie di verità incontrovertibili e mettono all’indice le idee altrui semplicemente perché diverse dalle proprie (Voltaire, dove sei?).

A volte si ha l’impressione di un inquietante ritorno al passato, magari proprio quello cantato dall’immenso genio di Faber che nel 1971 diede alle stampe l’album “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, adattamento di alcune liriche tratte dall’“Antologia di Spoon River” dell’americano Edgar Lee Masters. Con l’ausilio di un eccelso gruppo di collaboratori, De André ne realizzò la versione italiana riuscendo in un’impresa pressoché impossibile: tradurre e mettere in musica i versi di un autore straniero, migliorando il prodotto finale.

Il risultato è di una bellezza indicibile, sia dal punto di vista letterario (ne rimase impressionata persino Fernanda Pivano, che quelle poesie aveva tradotto per la pubblicazione in Italia) sia dal punto di vista musicale.

Uno dei brani, “Un blasfemo”, racconta appunto la storia di un uomo perseguitato e imprigionato per aver bestemmiato accusando Dio di aver ingannato l’uomo per tenerlo vincolato a sé. Dopo morto, il protagonista sposta l’accusa su chi, in nome di Dio, prevarica il prossimo con l’arroganza del potere che pretende di derivare dalla religione.

La trama sembra plasmata sulle disavventure del cantautore argentino Atahualpa Yupanqui, uno dei massimi e più influenti compositori di lingua spagnola, che nel 1948, sotto la presidenza Peron, patì cento giorni di carcere per la sua “Preguntitas sobre Dios”, letteralmente “Domandine su Dio”. Erano interrogativi retorici sull’abbandono divino nei confronti dei più fragili e degli svantaggiati che si concludevano con le strofe “Dio veglia sui poveri?/Forse sì, forse no/ Di sicuro però pranza/alla mensa del padrone”.

Nel corso del suo ultimo concerto tenuto nel febbraio del 1992, a tre mesi dalla morte, Yupanqui disse che con quella canzone non voleva offendere nessuno, tantomeno i credenti, tra i quali annoverava l’amatissima mamma, pur schierandosi tra chi, come il padre, si definiva “dudante”. Dudante è una parola spagnola che si potrebbe tradurre con scettico. In realtà, esprime in maniera più ampia la condizione di chi nutre dubbi ma è aperto al confronto e rifiuta comunque i dogmi.

Il bersaglio dell’invettiva di De André era contestualizzato ai suoi tempi e alla sua formazione culturale, ma il messaggio rimane (purtroppo) di una straordinaria attualità.

Anche per questo la settimana reatina di preghiera per l’unità dei cristiani e per l’affermazione della giustizia rappresenta uno strumento potente per corroborare tanto le coscienze quanto gli intelletti.

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