(di Ileana Tozzi) Le strade, come sanno bene i lettori di questa rubrica, avevano un tempo titolazioni diverse non imposte da esigenze formali dettate da una commissione incaricata della toponomastica, ma per lo più attribuite spontaneamente in base all’uso e alla funzione economica e sociale a cui assolvevano.
È certo questo il caso del viale più grande e maestoso di Rieti, intitolato ad Emilio Maraini in tempi relativamente recenti, se solo si riflette che il sagace imprenditore svizzero
Senatore del Regno, vicepresidente del comitato centrale della Croce Rossa, fautore della prima industrializzazione cittadina morì nel 1916. Molto tempo prima, al di là dei bastioni di Porta Cintia per secoli si era disteso un largo stradone bianco di ghiaia, polveroso d’estate, fangoso d’inverno, che avanzava diritto tra gli orti, puntando senza indugio verso settentrione, appena punteggiato dai modesti romitori di Campo Reatino, extra et prope muros: Sant’Andrea, Sant’Erasmo, San Pietro utilizzati come hospitalia o come lazzaretti, quando le frequenti epidemie rendevano indispensabile allontanare fuori dalle mura il rischio del contagio.
Ogni tre anni, la remota campagna si animava, popolandosi di esagitati curiosi, quando il palio dell’Assunta si svolgeva lungo l’itinerario che da porta d’Arce attraversava la campagna per rientrare a porta Conca, percorrere al galoppo il Corso e terminare alla Ripresa nei pressi della basilica di Sant’Agostino.
La meta della corsa era costituita dalla chiesetta di Santa Maria dei Frustati, nota ai più sotto il titolo di Madonna del Cuore, dove fu attiva fino agli inizi del Novecento la Compagnia di Sant’Isidoro che aggregava i braccianti e i contadini delle Porrara e dei Micioccoli. Molti di loro, i più poveri e sventurati, avevano imparato il mestiere dei campi accolti fino ai diciotto anni di età presso l’orfanotrofio maschile della Madonna di Loreto fuori porta Cintia, demolito negli anni ’30 del XX secolo per consentire la costruzione del complesso scolastico del “Marconi”.
L’alberata, con i suoi doppi filari di platani che ombreggiavano le corsie destinate al passeggio, fu messa a dimora al tramonto del XIX secolo: qui allora correvano sfrenati al galoppo i destrieri e i calessini dei giovani della buona società reatina, presto avrebbero transitato le biciclette degli operai dello Zuccherificio e della Supertessile.
Intanto la Commissione Ferroviaria Municipale istituita nel 1862 aveva rinunciato al sogno di realizzare due linee che si sarebbero intersecate a Rieti: la Pescara-Rieti e la Terni-Avezzano-Roccasecca. Accantonato il progetto dei tempi del Buongoverno di Pio IX, che destinava l’area dei Micioccoli alla costruzione della stazione ferroviaria, si optò per una soluzione solo apparentemente più comoda e vantaggiosa. Iniziò allora lo sventramento delle mura sacrificando la porta Leporaria.
Il processo di demolizione sarebbe proseguito per tutto il corso del XX secolo trasformando irreversibilmente l’assetto di porta Cintia e porta d’Arci.
Gli intellettuali dei Cahiers des Annales spesero le loro energie, durante la prima metà del Novecento, nell’apologia della storia: anche a noialtri conviene riflettere sulla storia del nostro territorio, modellato dalle generazioni trascorse, così da costruire un presente a misura d’uomo ed orientare positivamente il futuro delle generazioni che verranno.