di Stefania Santoprete – Pazzi. Furiosi. Imprevedibili. Noi, brave persone tranquille nella nostra quotidianità, ci trasformiamo in mostri capaci di compiere vicende inenarrabili. La penna di un autore di thriller difficilmente riuscirebbe a immaginare scene così raccapriccianti o vicende psicotiche come quelle che troviamo ormai quotidianamente in prima pagina. E questo, oltre a sorprenderci, ci lascia esterrefatti, impauriti e sconvolti al pensiero di quanto sia labile e sottile la linea che separa la normalità dalla follia.
Abbiamo sempre pensato che il male fosse un’eccezione. Ci siamo illusi che si trattasse di fenomeni lontani da noi, che non ci riguardassero. Ora, nella quiete delle nostre esistenze, cominciamo a riflettere su come basti un momento di vulnerabilità, una scintilla di rabbia e disperazione, per trasformarci in qualcosa di completamente diverso. E se prima ripetevamo “Noi no”, cullandoci nel nostro piccolo mondo che ci illudevamo di conoscere perfettamente, ora qualche timore lo avvertiamo.
Le notizie che ci colpiscono, quelle che spesso raccontano di atrocità o atti di violenza, parlano di persone comuni che, sopraffatte da emozioni inarrestabili, si abbandonano a comportamenti che sfuggono alla comprensione. La ragazza pulita, carina, perfetta, che per ben due volte sembra aver ucciso i neonati partoriti, seppellendoli nel giardino di casa, era una come tante: giovani che ci passano accanto, sorridenti, immerse nei loro progetti, soddisfatte dei loro buoni voti, rassicuranti.
E questo abbattere gli stereotipi a cui siamo abituati, questa maschera convincente nel celare la crudeltà, questa difficoltà nel distinguere il bene dal male e quindi nel difendersi dal pericolo, credo sia uno degli aspetti più tragici di questa società.
Nel sentire le parole degli esperti che si accalcano ad esaminare, vivisezionare e giudicare, la motivazione più ricorrente è la solitudine: il terribile vuoto in cui i responsabili di tali azioni si muovono come se vivessero all’interno di una bolla, di cui noi che li circondiamo saremmo responsabili, per non aver visto, per non aver compreso, per non aver chiesto, per non aver intuito.
Questo fenomeno è aggravato dalla molteplicità di messaggi e immagini che ci bombardano quotidianamente, creando una sorta di “rumore” che rende ancora più complicato discernere la verità. Ma, è poi veramente così?
Padre Lucio, a cui ho chiesto di scrivere un articolo per raccontare le giornate al fianco dei suoi “ragazzacci”, in una lunga telefonata ha messo in evidenza la trasformazione di una parte della generazione che non sa più cosa sia l’empatia. Ragazzi giovanissimi che, diversamente dai loro fratelli, ignorano le conseguenze delle proprie azioni, il dolore che possono provocare, quasi fossero anestetizzati. Forse l’immersione in un mondo digitale provoca questo distacco: ci disabitua alle relazioni interpersonali. Scrivere in chat, anziché parlare, ci fa perdere la dimensione emotiva e il linguaggio del corpo, rimanendo focalizzati su noi stessi piuttosto che sugli altri.
Questo può essere amplificato dai social media, che rendono tutti protagonisti in cerca di approvazione, favorendo l’egocentrismo e tendendo a focalizzarsi principalmente sui propri bisogni e desideri, senza riconoscere o intuire quelli dell’altro. Il pericolo estremo è quello di non accettare un “no” e agire di conseguenza.
Non possiamo ignorare il problema.